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Parchi Letterari in Sicilia

La Regione Sicilia negli ultimi anni ha contribuito a istituire nel suo territorio dei Parchi Letterari, ovvero dei centri di conservazione e promozione del vasto patrimonio letterario dell’isola. La scelta delle aree geografiche dei parchi corrisponde alla selezione dei luoghi intimi e cari che hanno nutrito il genio creativo di ciascun artista o ospitato i personaggi delle loro opere. 

Quali sono i Parchi letterari siciliani? 

Parco Letterario intitolato a Giuseppe Tomasi di Lampedusa  

Parco Letterario intitolato a Luigi Pirandello 

Parco Letterario intitolato a Leonardo Sciascia 

Parco Letterario intitolato a Salvatore Quasimodo 

Parco Letterario intitolato a Giovanni Verga 

Parco Letterario intitolato a Elio Vittorini 

Il Parco Letterario dedicato a Giuseppe Tomasi di Lampedusa  

Si estende su un vasto territorio della Sicilia occidentale: da Palermo, passando per la zona di Santa Margherita, fino a Palma di Montechiaro e abbraccia tutti i luoghi legati alla sfera familiare dello scrittore e alla sua infanzia. Palermo, ad eempio, è il palcoscenico del celebre libro “Il Gattopardo” e luogo della residenza della famiglia Tomasi. 

Il Parco intitolato a Luigi Pirandello 

Si focalizza principalmente nella sua casa-museo in contrada Caos, nell’agrigentino. L’area si estende fino alla zona marittima di Porto Empedocle – luogo cruciale per il giovane Pirandello dove risiedevano i magazzini del padre – e nelle zone circostanti, ricche di miniere di zolfo, simbolo di un mondo popolare oggi perduto ma che ha influenzato fortemente l’autore.  

Il Parco Letterario di Leonardo Sciascia 

Vasta è anche l’area che interessa questo parco: qui un unico percorso riunisce le aree delle zolfatare della Sicilia occidentale con i luoghi divenuti celebri per i fatti di cronaca di stampo mafioso. Centri nevralgici sono Regalpietra il comune nato dalla fantasia dell’autore,  Recalmuto, città natale dello scrittore, e Caltanissetta, dove Sciascia si formò e visse la sua giovinezza.  

Parco letterario di Salvatore Quasimodo 

La Terra impareggiabile è il titolo dell’ultima raccolta di poesie, oltre che il nome del Parco letterario di Salvatore Quasimodo. Nato dalla volontà del suo unico erede, il parco intende condurre il visitatore nei luoghi principali per Quasimodo: Modica, Roccalumera, Messina, Tindari, Le Isole Eolie, Siracusa, Pantalica e la zona dell’Agrigentino. Tutti i luoghi in cui è possibile respirare ancora le radici della sicilianità e degli antichi lirici greci tanto cari all’autore. 

il Parco Letterario dedicato a Giovanni Verga 

L’Arcipelago dei Ciclopi, il comune di Aci Trezza e il Castello Normanno di Aci Castello, in provincia di Catania, sono le aree del Parco Letterario dedicato a Giovanni Verga, nel quale hanno vissuto i protagonisti dei romanzi veristi dell’autore. Qui è possibile visitare i luoghi legati alla storia della famiglia Toscano, come la Casa del Nespolo, la fontana e la chiesa di Aci Trezza. 

Il Parco Letterario intitolato a Elio Vittorini 

Ultimo, ma non per importanza, è il Parco dedicato al celebre scrittore Elio Vittorini a Siracusa. La magica città siracusana ha dato i natali all’autore e ha fatto da meraviglioso sfondo a diverse opere. Il percorso comprende l’Isola di Ortigia, il Ponte Umbertino e la stupefacente bellezza del Duomo, in grado di condurre i visitatori in un racconto visivo capace di coinvolgerli con tutti i sensi. 

La Strada degli Scrittori 

Di recente la Regione Sicilia ha deciso di dedicare una strada statale – che attraversa le province di Agrigento e Caltanissetta  – ai suoi scrittori più celebri: la Strada degli Scrittori. Nata grazie all’idea del giornalista siciliano Felice Cavallaro, il tratto della SS 640 è un altro esempio dell’importanza che l’isola riconosce alla propria cultura e agli uomini che l’hanno resa celebre in tutto il mondo.  

Se anche tu vuoi scoprire un itinerario speciale e immergerti nella cultura letterario dell’isola, contattaci per un tour realizzato su misura.  

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Sutera: un pittoresco villaggio ai piedi di un gigante

Sutera – un pittoresco villaggio ai piedi di un gigante, una roccia svettante che domina l’alta valle del Platani, in una dimensione antica e genuina dal fascino inalterato.

Le storie di “truvature”, grandi tesori nascosti e vani tentativi di trovarli, fanno parte della ricca tradizione locale.

Da lontano la roccia svettante con l’antico monastero in cima ricorda una “meteora”, quelle torrette con pareti a picco tipiche del paesaggio della Tessaglia.

È intorno a questa montagna, conosciuta come San Paolino, che si è sviluppata nei secoli la storia di Sutera.

È una storia antica che affonda le sue radici nella leggenda del mitico fondatore: Dedalo e testimonianze archeologiche della presenza dei Sicani nel 6000 a.C.. I greci la chiamarono “Soter”, che significa “sicura”, per la posizione strategica a controllo della valle del Platani.

La presenza araba si riflette nel pittoresco quartiere del “Rabato”, che significa “borgo chiuso”. Lungo i vicoli stretti e tortuosi avvolti nel silenzio e circondati da casette si respira un’atmosfera antica e rarefatta, come se il tempo si fosse fermato. Il quartiere si è formato intorno alla moschea, costruita nell’875 d.C., di cui rimangono alcune tracce all’interno della chiesa principale costruita nel 1545 su una precedente del 1370 realizzata da Giovanni Chiaramonte, a tre navate con decorazioni in paillettes d’oro e una spettacolare fusione di marmi e intarsi in stile barocco nella Cappella del Sacramento.

Ogni anno, a Natale, le stradine diventano lo scenario naturale di un presepe vivente.

75 ampi gradini partono da Piazza del Carmine e si dirigono verso il Monte san Paolino fiancheggiando la roccia dove sorge il santuario dedicato a Paolino e Onofrio. Al suo interno sono custodite due splendide urne, capolavori dell’arte orafa siciliana, contenenti le reliquie dei due santi protettori.

Una passeggiata sulla grande terrazza è d’obbligo per godere di una vista mozzafiato. Tra valli brulle e piccoli boschi si possono scorgere i profili di ben 22 città e villaggi siciliani e gli imponenti castelli di Mussomeli.

Proseguendo la visita della città, si ha davvero la sensazione di attraversare un museo a cielo aperto e di tornare indietro nel tempo, in una dimensione antica e genuina, in cui le tradizioni mantengono inalterato il loro fascino.

Per conservare un buon ricordo di tutto ciò, provate le specialità gastronomiche come : “Pitirri” (zuppa di verdure), “maccu” (purè di fagioli), “mbriulati” (focacce ripiene di olive, salsiccia, cipolle), frittelle di pane e uova, taralli di Sutera, cassatine di ricotta, polli pasquali, “buccellati” (dolci natalizi ripieni di noci, mandorle e fichi).

Demetra e core

Demetra e Core: un mito per la Sicilia 

L’antica Trinacria ai livelli più arcaici di cultura, come altre aree nel Mediterraneo, era caratterizzata dal matriarcato e la religione prevalente era quella della Grande Madre, protagonista dell’evento unico della generazione e della cultura agraria.

Le due principali roccaforti del culto riservato alla Dea erano Enna ed Erice, “montagne” dove il sacro si manifesta nella roccia, ed anche altri luoghi come la città ellenizzata di Morgantina ed il centro siculo di Centuripe, che custodiscono entrambi preziose testimonianze archeologiche del culto.

La pietra, per la sua robustezza e durevolezza ben si presta a garantire le idee di eternità, di sacro, di tabù. I miti più arcaici parlano, infatti, di terra e cielo uniti, di eventi traumatici che li hanno separati e del tentativo di ricollegarli attraverso montagne artificiali come torri o piramidi o le rocche che costituiscono naturali assi di collegamento tra il piano terrestre e quello celeste.

Enna fu il centro di culto principale di Demetra/Cerere e della figlia Core/Persefone, divinità legate alla fertilità della terra. 

Si narra che durante il periodo in cui Core si trovava vicino alla madre la natura era rigogliosa e fertile, mentre quando scendeva nell’Ade dal marito Plutone, come stabilito da Zeus, tutto sembrava apparentemente “morto”. Il mito riporta che gli abitanti della Sicilia ricevettero il dono del grano per aver aiutato la Dea a ritrovare la figlia rapita ed averla fatta sorridere nei momenti della triste ricerca.

Questa spiritualità antica si ritrova oggi nel culto della Vergine della Visitazione, patrona di Enna, che pian piano soppiantò il culto della Dea, benchè alcuni aspetti delle cerimonie pagane rimangono latenti e frammentati nella pratica cristiana. 

Alle soglie del ‘400 la statua della Dea era stata bruciata da Re Martino per mettere fine al culto pagano strisciante, e venne sostituìta con la statua lignea della Madonna della Visitazione, acquistata a Venezia nel 1412 e adornata da una preziosa corona ed un manto trapuntato di gioielli. 

L’itinerario della Processione, a quanto sembra, venne stabilito dal volo di alcune colombe bianche. 

In attesa del 2 luglio, data non a caso vicina alla mietitura, il simulacro della Vergine resta sempre nascosto nel duomo di Enna, come avveniva anche per la statua della Dea conservata nell’adyton, cioè il sacrario impenetrabile del tempio.

I portatori, detti “nudi” indossano bianche tuniche come gli antichi sacerdoti ed il fercolo è chiamato la “nave d’oro” per il suo splendore. Fino a pochi decenni fa, era anche adornato di spighe, papaveri e fiori di campo offerti dalle fanciulle in età da marito, emule di Core che era intenta a raccogliere fiori sulle sponde del lago di Pergusa quando venne rapita da Ade, inconsapevole precursore del rito nuziale siciliano della “fuitina”.

Fino al tardo Ottocento si usavano pure le fiaccole per ricordare la torcia accesa nel cratere dell’Etna dalla Dea per rischiarare la notte siciliana in cerca della figlia. 

Anche Iside, spesso assimilata a Persefone, viaggiava su una nave ed il suo culto era molto diffuso nella Sicilia romana. Lo ritroviamo nel culto di S. Agata, patrona di Catania.

La corona aurea della Vergine ricorda, infine, la corona di spighe ed il bambino. Anche se all’epoca della Visitazione Maria era incinta, sostituisce la dea della Vittoria che era posta nelle mani di Cerere nella scultura che ispirò a Verre sacrileghi desideri di rapina, così come ci racconta Cicerone nelle famose Verrine, dove descrisse con minuzia di particolari il grandioso santuario di Demetra di Enna, posto alla finedi una lunga via Sacra, ricca di statue colossali e santuari satelliti.

Durante la festa della Madonna si distribuiscono pani e dolci votivi come ai tempi di Cerere e gli Ennesi esclamano ancora nella vita quotidiana “Cori, Cori!”, la mitica Persefone o la Vergine Maria?”.

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Marsala: 13 gradi di piacere

Il profumo del mare invade il centro storico, i venti africani si insinuano tra i filari di viti al tramonto, le rovine dell’antica Lilibeo per i Romani e di Mars-el Allah per gli Arabi, si tingono di colori forti, dal rosso all’oro. Definita da Cicerone Splendidissima Urbs , oggi Marsala è il capoluogo di una regione vinicola prestigiosa ed unica dove già i Cartaginesi, a Mothia, si rifornivano di vino da commercializzare in tutto il Mediterraneo.

Archestrato e Apicio, nella cucina greco-romana, lo coniugavano con le salse, le carni in umido, gli stufati, la selvaggina.  Ma il Marsala è eccellente anche da sorseggiare in meditazione, è perfetto con le ostriche, con la zuppa di pesce, con i formaggi erborinati, e non smette mai di stupire.

“Il vino é così buono che è degno della mensa di qualsiasi gentiluomo”, così nel 1779, l’ammiraglio Oratio Nelson lo descriveva dopo averlo assaggiato dal sig. Woodhouse ed averne ordinate 500 botti per le sue navi. Tra Ottocento e Novecento furono molti i produttori e i mercanti che fecero la fortuna del Marsala, elogiandone la prelibatezza: Withaker, Gill, Clark, Gray e Florio furono alcuni di questi. Fu così che i vecchi bagli, finalizzati alla difesa dalle invasioni turche ed africane, si trasformarono in fattorie per la produzione del vino con grandi cantine dove questo poteva invecchiare per almeno 30-40 anni. Durante questo periodo il vino subiva il trattamento “solera” , applicato dagli spagnoli allo sherry, che consiste nel travasare, a distanza regolare di tempo, una parte del vino dalla botte del prodotto più giovane a quella contenente il tipo già invecchiato.

Il carattere del Marsala è dato dalle condizioni climatiche, dai terreni asciutti, ricchi di silicati e calcare, e i suoi vitigni sono autoctoni: grillo, cataratto, inzolia, damaschino, pignatello, nero d’Avola, nerello mascalese. Per ottenere il Marsala il vino deve essere addizionato con il “cotto”, il mosto dell’uva cataratto, cotto ed invecchiato, che gli conferisce un sapore lievemente amarognolo, e con il “sifone” ottenuto dal mosto di uve grillo a vendemmia tardiva, che procura al vino quel gusto forte e dolce che incanta gli amatori.

Il Marsala secco, servito a 13 gradi ed accompagnato da pistacchi ed olive, o meglio ancora da ostriche come si usava a casa Savoia, diventa un aperitivo irresistibile; è perfetto con prosciutto e melone. Il superiore si sposa con le carni bianche e la selvaggina, mentre il superiore riserva è perfetto con una zuppa di pesce profumata all’aglio e peperoncino o con un pecorino toscano stagionato. Ma se si tratta di un’anatra all’arancia, l’abbinamento perfetto è un Marsala vergine o “solera”, maturato ed affinato al buio di una cantina per lunghi anni. Il tipo vergine stravecchio può essere abbinato a formaggi erborinati e fermentati come il gorgonzola ed il roquefort, ma noi consigliamo di gustarlo da solo come autentico vino di meditazione, perchè accende la memoria e metabolizza le emozioni. 

Il principe di Salina, il Gattopardo, ci insegna come servirlo : “…in un bicchiere piccolo, di cristallo trasparente per apprezzarne il colore ambrato, a forma di tulipano, per consentire di espandersi ai profumi di zagara, mandorla, ginestra, fiori di zafferano e sommaco, mitico arbusto isolano. E nel servizio sia compreso un antico toscano, il miglior sigaro scuro al mondo.” 

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Siti archeologici da riscoprire in Sicilia

Uno dei motivi fondamentali per cui il turismo culturale non decolla adeguatamente, in particolare in Sicilia, è senza dubbio legato ad una serie di “topoi” , luoghi-comuni, e presunte inadeguatezze dei servizi e delle strutture.

In realtà, il turismo culturale, in particolare archeologico, stenta a decollare soprattutto per la limitata conoscenza dell’immenso patrimonio di cui disponiamo.

Un patrimonio unico al mondo, che ci fa i siciliani che siamo e non quelli che altri vorrebbero che fossimo. Coloro che vengono da fuori, visitatori-turisti, apprezzano questa peculiare abbondanza dei segni di millenarie civiltà stratificate.

Ma come ognuno di noi sa si richiede solo ciò che si conosce e l’offerta va fatta da chi conosce i luoghi e ne vuole promuovere la crescita, altrimenti si continuerà stancamente a pensare che la Sicilia è solo “il paese del sole”, delle coppole, della mafia e dei luoghi comuni.

Einstein diceva che “è più facile dissociare un atomo, che distruggere un luogo comune”, ma vale la pena tentare per dire quel qualcosa in più di cui già parlava Goethe indicando nella Sicilia “la chiave di tutto”.

Sicilytudine si propone anche come strumento di conoscenza per “scoprire” l’esistenza di località utili a far conoscere la Sicilia vera e non quella dei “topoi”.

I consigliati da Sicilytudine

In Sicilia si trovano alcuni tra i siti archeologici più belli di sempre, oggi noi vi segnaliamo gli imperdibili; quelli da visitare assolutamente se siete degli appassionati di archeologia.

credits flickr.com/photos/xispics/

Area Archeologica di Tindari

Fondata nel 396 a.C. da Dioniso I, tiranno di Siracusa, Tindari è una delle colonie greche più importanti, rimaneggiata durante il periodo romano. Qui sono state riportate alla luce testimonianze greco-romane come mosaici, sculture e i resti delle antiche mura che difendevano la città. Il fiore all’occhiello è il Teatro greco, rivisitato dai Romani, con una magnifica vista sul Mar Tirreno e sulle Isole Eolie.

Parco Archeologico Giardini Naxos e Taormina

Sempre in provincia di Messina è possibile visitare i resti archeologici della prima colonia greca in Sicilia, Naxos, fondata nel 734 a. C. dagli Eubei di Calcide. Il suo Parco Archeologico è particolarmente suggestivo perché è uno dei rari esempi dell’impianto urbanistico tipico dell’era arcaica della Magna Grecia. Il trionfo dell’età ellenistica e del periodo Romano si può ammirare a Taormina, grazie al suo imponente Teatro Greco-Romano, una delle opere ingegneristiche più all’avanguardia di tutta la Magna Grecia.

Parco Archeologico della Neapolis di Siracusa

Proseguendo il viaggio verso la parte più meridionale della Sicilia, ci fermiamo a Siracusa, nel Parco Archeologico della Neapolis, uno dei 5 siti archeologici più celebri dell’isola. Custode di preziosi tesori artistici e storici, così rari e importanti che la città è stata riconosciuta tra i Patrimoni Mondiali dell’UNESCO.

Necropoli Ruprestre di Pantalica

La Necropoli di Pantalica, ubicata a circa 40 chilometri da Siracusa, è stata anch’essa insignita del titolo di Patrimonio Mondiale dell’UNESCO per il suo scenario naturalistico incontaminato incastonato sulle pendici dei Monti Iblei, dove è possibile trovare circa 5000 tombe risalenti all’Età del Bronzo, scavate nelle pareti rocciose e che si gettano a picco sulla Valle dell’Anapo, Riserva Orientata.

Valle dei Templi di Agrigento

La valle dei templi di Agrigento è senza dubbio un luogo unico, che racconta una storia antica più di duemila anni. L’area d’interesse storico, caratterizzata dall’eccezionale stato di conservazione, si estende per più di 1300 ettari e dal 1997 è patrimonio mondiale dell’umanità UNESCO. Nella Valle dei Templi di Agrigento è possibile ammirare i resti di molti templi dorici, tre santuari, una grande concentrazione di necropoli, fortificazioni, opere idrauliche e parte di un quartiere ellenistico romano costruito su piana greca.

Villa Romana del Casale di Piazza Armerina

Grazie alla sua eccezionale ricchezza di elementi architettonici e decorativi, l’antica residenza è entrata a far parte della World Heritage List tutelata dall’Unesco.
Ubicata nel cuore della Sicilia e contornata da bellissimi paesaggi naturali, La Villa Romana del Casale di Piazza Armerina è un tesoro artistico dal valore inestimabile, che attira ogni anno centinaia di migliaia di turisti. Importanti scavi condotti verso la metà del Novecento hanno portato alla luce 3500 metri quadrati di pavimentazione a mosaico figurativo e in stile geometrico, che secondo alcuni storici dell’arte sono
i più belli e meglio conservati del loro genere.

Parco Archeologico di Selinunte

L’area monumentale di Selinunte è un luogo dove il tempo è sospeso, immersa in un’altra dimensione: uno dei più alti e grandiosi esempi greci di integrazione tra urbanistica, architettura e paesaggio dell’intero Mediterraneo. 270 ettari di mito, leggenda, storia e cultura che raccontano una delle più fiorenti civiltà classiche del Mediterraneo.

Foto giardini

Giardini di Sicilia

I giardini di Sicilia sono qualcosa di magico. Impasti misteriosi di pianti, grandi alberi, sculture, fontane, viottoli, siepi, muraglie, chiostri, gazebi; il tutto raccolto in un tessuto connettivo fatto di storia, tradizione, leggenda e superstizione.

Essi costituirono le porte di accesso nel continente Europa di moltissime piante esotiche. I giardini di “acclimatazione” ebbero, infatti, un ruolo attivo, soprattutto nell’Ottocento, assumendo spesso un carattere sperimentale come nel caso del giardino coloniale annesso all’Orto Botanico di Palermo.

Nel contesto geografico della Sicilia molte specie finirono per spontaneizzarsi assumendo, talora, un carattere invasivo e marcando il paesaggio di un’inconfondibile nota esotica come il Fico d’India e l’agave americana. Altro esempio di vegetazione esotica ornamentale sulle sponde del Mediterraneo sono gli aranci, ma intensa è l’impronta tropicale anche grazie a ficus, palme, eritrine, araucarie, melaleuche, dracene, aloe, yucche, jacarande, cycas ed eucalipti, talvolta in combinazione decorativa con il leccio e il cipresso piramidale.

Il Giardino Paradiso in Sicilia

Sicuramente già nell’antichità tardo-imperiale romana il giardino aveva un ruolo speciale nelle ville suburbane come quella di Piazza Armerina dove i mosaici del IV secolo d.C. costituiscono un vero e proprio “erbario musivo”, ma è nella Sicilia islamica che si sviluppa il concetto del giardino-paradiso”.

Esso nasce in Iran e nello Yemen dove l’ecosistema artificiale dell’oasi ha la peculiarità di dover far fronte ai deserti, non di dune, ma di sassi e di configurare “l’orto-giardino” in termini chiusi, attraverso la sua recinzione con un muro.  Il termine stesso (antico persiano) “pairi-daeiza”, da cui deriva “paradiso”, significa appunto “giardino cinto da muri”.

Si tratta di una realtà sia materiale che concettuale, che rappresenta un luogo di vita e benessere, chiuso e riservato, contrapposto all’invivibilità ed alla morte circostante e da cui nasce la configurazione del proprio “ultraterreno”.

La denominazione “paradiso” si ritrova nell’Ebraismo e nel Cristianesimo, ma è l’Islam che descrive esplicitamente “il Paradiso dei Beati” in forma di giardino allietato da tutte le caratteristiche botaniche, paesaggistiche e di attività di “sollazzo” come nei grandiosi giardini palaziali dell’Impero persiano antico a cui si riferiva Senofonte traducendo “paradiso” in greco.

Proprio l’Islam diffonde questo concetto nel Mediterraneo, in Andalusia nel 711 d.C e in Sicilia dopo 827 d. C., trasformando questi luoghi in centri di rielaborazione della lezione persiana che darà successivamente vita ai geometrici chiostri conventuali ed ai giardini rinascimentali.

I giardini islamici erano un laboratorio di interazione tra uomo ed ambiente per le soluzioni tecnico-idrauliche, la diffusione di essenze botaniche, quali agrumi e gelso, la selezione di piante e fiori, quali le rose, la formalizzazione architettonica, ma anche la composizione musicale e poetica, la discussione filosofica, la circuitazione di dati storici, leggende, precetti religiosi, aneddoti, la pratica erotica, la sperimentazione gastronomica ed il misticismo fino all’esoterismo.

Il rapporto tra “contenitore” (il giardino-paradiso) ed “il contenuto” (le azioni che vi si svolgevano) era basato su una dialettica speculare dato che il tema di buona parte delle composizioni letterarie e musicali che fiorivano nel “giardino-paradiso” era connesso alle caratteristiche di quel giardino, alle piante e geometrie, alle attività in un continuo gioco di rimandi con diversi livelli di significato e di lettura, ma intrecciati on estetica, erotismo, simbolismo, misticismo. Un solo esempio: la rosa, utilizzata per la sua bellezza cromatica ed il suo profumo, ma anche simbolo della sessualità femminile e dell’unione mistica con Dio. (Cielo D’Alcamo, Rosa fresca aulentissima, scuola siciliana)

Il concetto di “giardino-paradiso” ebbe la sua naturale proiezione in età normanna nei giardini palaziali detti “sollazzi”, il cui riflesso si trova nelle decorazioni del soffitto della Cappella Palatina e nell’atrio della Zisa di Palermo, dove la vera realtà si svela solo a chi ha l’accesso iniziatico ai luoghi del sapere.

In alcuni giardini siciliani, nel terzo millennio, è tuttavia ancora possibile ammirare l’ingegno del mondo arabo. Saja, zappeddu,gebbia, vaina sono i termini della lingua siciliana che servono ad indicare i manufatti coinvolti a raccogliere e convogliare l’acqua per irrigare le colture ed in particolare l’agrumeto. L’acqua arriva alla saja da un pozzo o da una fonte esterna e grazie ad una pendenza minima scorre nel suo alveo realizzato con canali di terracotta, simili a tegole, ma più concave e tenute insieme da malta e poggiato su muretti di pietra lavica, i cui margini sono rinforzati da mattoncini di terracotta che ancorano e danno stabilità a queste condotte. Il cammino dell’acqua dapprima vorticoso nelle canalette diventa soave e lento nel punto di arrivo che viene allagato sotto la chioma di ciascun albero. La terra bagnata sprigiona un profumo ricco ed avvolgente che le parole faticano a raccontare.

Il Giardino romantico in Sicilia

A partire dal Settecento, infine, gli Inglesi cominciarono ad emigrare verso il Mediterraneo per motivi di lavoro, moda, salute o clima o solo anche per il giardinaggio creando una varietà ricchissima di giardini all’estero ed in particolare in Italia, almeno fino al 1860, quando il sud della Francia prese la supremazia dei loro interessi botanici. Il giardino “à l’anglais” è particolarmente naturalistico in confronto al formalismo dei giardini italiani dell’Ottocento e si riassume in due elementi: eleganza e grazia, oltre che l’intimità, la reclusione, la vivibilità e il fatto che bisogna sporcarsi le mani, visitatori compresi. Lo stile inglese ebbe molto successo in Sicilia e dimostra, ancora una volta, la capacità dell’isola di assorbire le culture straniere elaborando uno sviluppo siciliano del giardino romantico come nei quadri pre-raffaelliti di Dante Gabriele Rossetti.

Tour Giardini di Sicilia

Il tour di tre giorni, organizzato da Sicilytudine lungo la Sicilia orientale, ti permetterà di conoscere tutti i segreti dei giardini più belli realizzati in Sicilia, dal “giardino-paradiso” di matrice islamica al giardino romantico in stile inglese.
Scopri di più sul Tour

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L’Etna, la lava, la fede

La paura e la speranza.

La gente dell’Etna vive e convive, da sempre, con la paura. È la paura di perdere le proprie cose, di vedere cancellata la memoria personale e familiare, che fa chiedere a gran voce un miracolo, una grazia speciale, un segno della misericordia divina.

Nell’intrigo violento di paure e passioni che si scatenano all’arrivo di un’eruzione può capitare di non sapere più distinguere tra gli atteggiamenti di fede spontanea e quelli dettati dal bisogno di esorcizzare il Male. Durante l’eruzione si getta acqua santa sui campi e sulle case; a pericolo scampato si attivano riti di ringraziamento che vanno dal pellegrinaggio sul luogo del “miracolo” alla costruzione di edicole ed altarini votivi. Nell’antica tradizione cristiana, infatti, il pellegrinaggio rappresentava un viaggio interiore per ritrovare Dio e rimetterlo al centro della propria esistenza.

L’Etna, per la fertilità del suo suolo, ospita un’infinità di paesi, villaggi e anche grandi città; la capacità di convivere con il vulcano è diventata un’esigenza primaria per migliaia di persone da affrontare giorno per giorno, ora dopo ora.

Il ricordo, invece, permette di conoscere il passato, le abitudini, le tradizioni, la capacità di sopravvivenza degli antichi, pronti a cogliere i segnali ed i suggerimenti che la Natura trasmette.

Pellegrinaggi sul fuoco e sulla lava

Di fronte al maestoso spettacolo del vulcano anche l’uomo più scettico viene colto da un sacro timore: tramonti rosso sangue, distese di nero deserto di lava, picchi aguzzi come guglie di cattedrali gotiche, pennacchi di fumo, emissioni di esalazioni sulfuree accompagnate da un acre odore di vetriolo e il vento, un vento forte e potente che fischia e si insinua tra i costoni taglienti e le siepi di ginestra.

Per i greci, i filosofi, i poeti questi spettacoli naturali rientravano nel potere divino del vulcano e generavano un timore sacro tra gli abitanti, da esorcizzare attraverso la fede disperata e potente per contenere e ricacciare la terribile linfa di fuoco della montagna che vive.

Sull’Etna esistono molti luoghi sacri dove la religiosità popolare si manifesta in tutta la sua portata, specialmente per ciò che riguarda la tradizione molto antica che attribuiva al Velo rosso di Sant’Agata un potere miracoloso contro le eruzioni, come rappresentato su molte tele dell’iconografia della Santa.

Il Velo di Sant’Agata nei secoli è stato più volte portato in processione per fermare la furia della lava, a partire dall’eruzione del 252 fino al terremoto del 1908. La reliquia è conservata in uno scrigno d’argento all’interno del Duomo di Catania e, secondo la leggenda, fu utilizzato per coprire la Santa durante il martirio. 

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La religiosità popolare e il culto di Sant’Agata

Catania è una città di luci e ombre, in cui il folclore si mescola alla fede. La vita religiosa del popolo catanese riflette i caratteri propri della religiosità siciliana che – dati i diversi secoli di dominazione e grazie ai molti vescovi iberici – risulta molto affine a quella spagnola.

Nella città che sorge ai piedi del vulcano, oltre che a Sant’Euplio e alla Vergine Maria, una speciale devozione è dedicata a S. Agata, riconosciuta come modello dei valori più genuini della storia catanese. 

L’eccezionale diffusione del culto agatino tra Oriente ed Occidente è dovuta soprattutto alla particolare vicenda del martirio, che la presenta ai fedeli come modello di vita cristiana ma anche come potente aiuto contro le avversità quotidiane. Agata, vicina alla sensibilità popolare e alle sue condizioni di vita, diviene così il simbolo del riscatto e della sublimazione delle frustrazioni ereditate dalla Storia. 

È durante la dominazione araba e anche dopo la conquista normanna che il culto della Santa subisce un arresto: occorrerà parecchio tempo prima di ripristinare le consuete forme di culto pubblico.

Nel Medioevo la popolazione che occupa il territorio catanese è molto varia: al piccolo nucleo di cristiani superstiti si sono aggiunti quelli arrivati con i Normanni e gli immigrati, che aumentano per tutto il XII secolo. Si compone in quel tempo un mosaico di lingue e culture diverse tra greci, arabi, ebrei, francesi, tedeschi, lombardi, aleramici, genovesi, pisani, amalfitani. Anche all’interno del nucleo cristiano esistono delle distinzioni: alcuni sono di rito greco altri di rito latino. Sarò solo con Federico II – con il trasferimento delle residue popolazioni islamiche a Lucera in Puglia – che si raggiungerà una certa unità di religione e cultura. 

Il ripristino del culto di Sant’Agata rappresenta per Re Ruggero la volontà di ricollegarsi alle radici cristiane e puntare alla convivenza civile tra vincitori e vinti. Il ritorno delle reliquie da Bisanzio nel 1126 rappresenta un momento eccezionale poiché da quel momento Catania diviene meta di pellegrinaggi. Qui si può sperimentare la presenza del Divino come garanzia di grazie e favori straordinari e di protezione dai nemici, dalle malattie e dalle catastrofi. Inoltre per la città medievale il periodo della Festa diventa momento di aggregazione, commercio e ricchezza, con gare, palio, cortei e processioni spettacolari lungo le mura. La processione della “Luminaria” e delle reliquie con le candelore al seguito seguono rigidi protocolli cerimoniali e sono accompagnate da mortaretti e fuochi d’artificio. I devoti, inizialmente “nudi”, indossano poi il sacco

Prima del terremoto del 1693 il giro della processione è solo esterno, lungo le mura e i bastioni,  e i vari ordini religiosi si aggregano lungo una parte prestabilita del percorso per poi lasciare il posto ad altri. Dopo l’eruzione del 1669 ed il terremoto la processione cambia: si aggiungono i percorsi interni, il passaggio lungo la via Etnea davanti ai monasteri di clausura e le gare dei cantanti. 

Il Fercolo utilizzato per portare in processione le reliquie della Santuzza è una pregevole opera dell’orafo V. Archifel, realizzata nel 1519 e vanto di alta oreficeria catanese. Negli anni ha subito vari rimaneggiamenti fino al rifacimento totale, avvenuto dopo i bombardamenti del 1943. 

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L’opera dei Pupi: eroi per una sera

La tradizione delle marionette e dei pupi, manovrate da fili le prime e da bacchette e fili, i secondi, ha origini antiche e sembra discendere da marionettisti siracusani dei tempi di Socrate. 

L’opera dei pupi siciliani, caratterizzata dai combattimenti, da una processione e dalla presenza di figure di natura demoniaca, si qualifica come patrimonio culturale materiale e immateriale dell’umanità.

Storia e tradizione siciliana dell’Opera dei Pupi

L’opera dei pupi si radicò stabilmente nell’Italia meridionale e soprattutto in Sicilia tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. I pupi siciliani si distinguono dalle altre marionette principalmente per la loro peculiare meccanica di manovra (aste di metallo) e per il repertorio, costituito principalmente da narrazioni cavalleresche derivate in gran parte da narrazioni cavalleresche e poemi del ciclo carolingio.

I codici linguistici sono una mediazione tra italiano e siciliano, un metalinguaggio in cui sono spesso presenti dizioni care al pubblico per caratterizzare il personaggio.

Esistono, in Sicilia, due “stili” diversi dell’Opera dei Pupi: quella palermitana, affermatasi nella capitale e quella catanese diffusa anche in Calabria. L’iniziatore a Catania fu Don Gaetano Crimi (1807-1877), il quale aprì il suo primo teatro nel 1835. Le due tradizioni differiscono per dimensioni e peso dei pupi ma soprattutto per una diversa concezione teatrale e dello spettacolo.

Qual è la differenza tra i Pupi Catanesi e i Pupi Palermitani?

I pupi catanesi arrivano fino a 1 metro e 30 centimetri di altezza e possano raggiungere un peso di 35 Kg, i pupi palermitani raramente superano gli 80 cm di altezza e il peso di 5 kg. I pupi catanesi hanno le gambe rigide, senza snodo al ginocchio, e, se sono guerrieri, tengono quasi sempre la spada nella mano destra; i pupi palermitani possono articolare le ginocchia e sguainano la spada all’occorrenza e poi la ripongono nel fodero.

Il grande peso ed il sistema di manovra dei pupi catanesi ha fatto sì che a Catania il ruolo di “maniante” non coincidesse mai con la stessa persona che dà la voce ai pupi, il “parlatore, il quale è quasi sempre anche il regista dello spettacolo. La più grande “parlatrice” è stata Italia Chiesa Napoli, morta a 93 anni nel 2018, nuora di Don Gaetano Napoli capostipite che nel 1921 inaugurò nel quartiere Cibali il teatro Etna.

Indubbiamente, durante l’azione scenica si realizza un processo di identificazione tra il personaggio incarnato nel pupo e chi gli dà la voce. Le parole accompagnano e completano i gesti e rendono il pubblico co-partecipe dell’azione rappresentata, persino i non udenti.

La presenza femminile è determinante in perfetta continuità con la Commedia dell’Arte che permise alle donne di appropriarsi del palcoscenico, regno esclusivo degli uomini fino a quel momento. Spesso, per convivere con essi, devono rinunciare alla femminilità e travestirsi per combattere come Bradamante.

I pupi mantengono le caratteristiche che li rendono ben riconoscibili: determinanti sono i vestiti, le armature, gli scudi, le decorazioni degli elmi. 

Paladini Siciliani e Pupi

Peppininu è la maschera siciliana che i pupari e il pubblico vogliono sempre affiancare ai paladini per far sentire la voce del popolo. Piccolo, guercio e zoppo, egli indossa una livrea settecentesca e parla il dialetto catanese. Sciocco in apparenza, in realtà furbissimo spesso risolve i problemi degli eroi. 

Importantissimi furono i cartelli, che appesi giornalmente nelle strade, che annunciavano gli spettacoli che si rappresentavano in molte puntate eredità dei “cunti” dei cantastorie. 

I paladini, percepiti come persone vere, incarnavano frustrazioni, gioie e speranze del popolo siciliano. L’Opra assolveva a due importantissime funzioni. Da un lato, offriva una griglia d’interpretazione del mondo, poiché i singoli personaggi diventavano esempi per classificare le persone. Con la” Danza con le spade” i paladini attivavano l’eterno conflitto tra il bene e il male.

Dall’altro, incarnando ogni sera l’aspirazione ad un ordine del mondo più giusto, l’Opra era un riscatto mitico dalla propria condizione di subalternità e gli spettatori potevano sentirsi “eroi per una sera”.

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Sperlinga e il presepe vivente

Le tradizioni natalizie sono molto vive in alcuni borghi siciliani, dove si celebra la nascita di Gesù con presepi viventi che affascinano grandi e piccoli.

Fin dai primi secoli dell’era cristiana la nascita del bambinello ha avuto un posto speciale nell’iconografia sacra che, a sua volta, ha influenzato lo sviluppo del presepe da rappresentazione vivente a quella con figure scolpite. La storia vuole che il presepe sia “un’invenzione” di San Francesco risalente al 1223 e l’Ordine francescano ne favorì la diffusione fino ai grandi presepi napoletani mobili del Seicento, dove compaiono anche personaggi e luoghi laici come la taverna, il mercato, la fontana e i luoghi storici di Napoli. 

In Sicilia, oltre alla terracotta, alla cartapesta e alla creta sono stati nel tempo utilizzati anche materiali preziosi come oro e corallo. Nell’800 nasce “il pastore” che rispecchia arti e mestieri oggi quasi scomparsi.

In alcuni centri come Custonaci, Sutera e Sperlinga è possibile ritrovare le atmosfere di un tempo e recuperare il patrimonio etno-antropologico delle più antiche comunità siciliane. Sperlinga, in particolare, è un borgo rupestre dove esistono antiche dimore troglodite scavate nella roccia di arenaria, risalenti anche al XV secolo a.C.. Il nome deriva da “spelunca” e qui, durante la guerra del Vespro nel 1282, una guarnigione francese resistette all’assedio aragonese per 13 mesi, come ricorda la lapide all’ingresso del castello: “QUOD SICULIS PLACUIT SOLA SPERLINGA NEGAVIT”, “Quello che piacque ai siciliani solo Sperlinga negò”.

Il paese si raccoglie ai piedi del castello proprio come un presepe, attraversato da stretti vicoli e stradine scoscese. I pochi abitanti – circa mille –  parlano il dialetto gallo-italico, eredi dell’immigrazione dal sud della Francia e dal Nord Italia nel XI e XII secolo. Qualche anziana donna ancora produce le variopinte “frazzate”, rustici tappeti a disegni geometrici, realizzati intrecciando avanzi di stoffe multicolore.