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Settembre 26, 2022

Tradizioni di ricchi e poveri a tavola in Sicilia

Quando si cucina si attinge ai preziosi beni che la natura mette a nostra disposizione, e li si compone armoniosamente per realizzare accostamenti di gusto che stuzzicano il palato. A tavola il cibo unisce gli animi ma – come diceva P. Bourdieu ne “Il corpo tra natura e cultura” – è anche una forma di cultura che rafforza l’identità di gruppo e separa e distingue il “noi” dagli “altri”.

Testimonianze della realtà delle tavole dei poveri sono le foto con intento documentaristico scattate da Giovanni Verga – scrittore, drammaturgo e senatore italiano, considerato il maggior esponente della corrente letteraria del Verismo –  in giro per la Sicilia, a partire dal 1848.

Il pane nero (che si differenzia da quello bianco, destinato ai padroni) è il vero protagonista di un’alimentazione estremamente ridotta, e insieme a cipolle e vino diventa la ricompensa per contadini e pescatori che, dopo una lunga giornata, vedono ripagato il loro duro lavoro. Da qui derivano espressioni ancora oggi note a tutti come “buscarsi il pane”.

Un piatto tipico degli umili è anche la zuppa di fave con cipolle, zuppa di grano, sardelle e arance presentato da Verga in “Nedda”; il suo profumo caratterizza e rende più reali e veritiere le scenografie verghiane.

Pasta e carne condite con la conserva di pomodoro sono invece il menu dei ricchi, come racconta Tomasi di Lampedusa nel suo “Gattopardo”, dove il timballo di maccheroni portato in tavola dal principe di Salina “era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e cannella che ne emanava non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le filettature di prosciutto, di pollo e di tartufi impigliate nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”.

I sapori raffinati e le tradizioni culinarie popolari delle monache di Catania

In seguito al terremoto del 1693 solo 6 dei 14 monasteri femminili allora esistenti furono ricostruiti: 5 benedettini e uno di clarisse. Al loro interno sono state custodite e tramandate molte ricette che altrimenti sarebbero andate perdute. Nelle loro mense si potevano gustare sia piatti più elaborati e raffinati che pietanze della tradizione popolare, ricette di matrice più rustica e contadina, con una grande attenzione alla cura dell’igiene, alla corretta conservazione degli alimenti, e all’utilizzo degli avanzi, precorrimento del moderno concetto di economia domestica.

La capacità di inventare ricette sempre nuove e varie era di estremo conforto nei monasteri femminili di clausura, dove le giornate scorrevano tutte uguali e prive di eventi in grado di far scaturire gioie o piacevoli sorprese in grado di alietare l’animo delle fanciulle giovani e meno giovani.

I pasti erano inoltre momento di aggregazione e condivisione, e dovevano prevedere due pietanze cotte a cui si poteva aggiungere una razione di frutta o legumi freschi. Era consentito un chilo di pane al giorno e un quarto di vino diluito con l’acqua.

Le tavole delle ricche e nobili benedettine erano invece spesso adornate da un ricco corredo e da fine vasellame. Nei loro piatti abbondavano portate a base di pesce, come tonno e tinche, ma anche frumento, vino, fave e orzo in quantità, che venivano in parte venduti per fornire al monastero maggiori entrate.

Anche qui il pane era l’alimento principe, la pasta veniva confezionata settimanalmente nei formati preferiti di lasagne, maccheroni, vermicelli, condita con varie tipologie di sughi. 

L’uso del riso era riservato ai dolci e alle pietanze dei giorni di magro, come le insalate. La carne era principalmente da pollame, ma nei giorni di festa si preferivano gli arrosti ed i bolliti di carni bovine ed ovine e piatti elaborati con salsiccia, impanate ed involtini. 

I legumi e le verdure, ampiamente consumati, venivano dall’orto della comunità dove venivano coltivate anche erbe aromatiche in grado di esaltare anche i pasti più frugali. Non mancavano le insalate con formaggi e uova, caponate, frittelle, ravioli ripieni, pasticci, minestre, e l’ottimo vino veniva prodotto dall’uva della vigna del monastero e in buona parte venduto.

Le clarisse, per arrotondare le loro magre rendite, erano solite dedicarsi al commercio di uova, vino, dolcetti e biscotti; “i biscotti della monaca”, infatti, sono conosciuti ancora oggi.  I famosi biscotti ad S erano il vanto del convento di Santa Chiara, che ne manteneva segreta la ricetta. Fu una delle ultime converse, Mara Messina, a portare con sé la ricetta facendone il cavallo di battaglia della pasticceria di famiglia, del nipote Cav. Arena, fondatore della famosa biscotteria in via Mancini. Ai biscotti ad S, usati anche per la pappa dei bambini, si aggiunsero le “nzuddi” biscotti secchi e profumati con scorza d’arancia e decorati con una mandorla, un tempo prodotti dalle suore vincenziane.

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